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La relazionalità contro la violenza

Questo articolo nasce dall’idea di coinvolgere il lettore in un confronto sul tema della violenza, in rapporto alla società e all’educazione contemporanea. A fine luglio ho avuto la possibilità di svolgere degli esami all’Università di Verona che mi hanno aiutata ad aprire orizzonti di pensiero differenti e a prendere più consapevolezza di cosa stiamo vivendo in questo momento storico molto particolare.  Vorrei condividere con voi queste riflessioni.

 

La violenza

Al giorno d’oggi la tematica della violenza è molto sentita dall’ordine pubblico mondiale, anche se parlarne è talvolta difficile. È una delle cose che ci spaventa di più e tuttavia continuiamo a praticarla.

La violenza è in qualche modo in un rapporto stretto e necessario con la realtà. Ne sentiamo parlare tutti i giorni, di atti di terrorismo, di femminicidi, dell’abuso di potere da parte delle autorità nei confronti degli stranieri negli Stati Uniti e avanti così.

La violenza non è aumentata o diminuita con il tempo, ma si è evoluta, trasformandosi sempre più in forme differenti. In passato di sicuro era più evidente, marcata, esplicita e chiara, adesso ci sono tante violenze indirette e psicologiche. Sembra che una spiegazione razionale a questo perpetuarsi di atti violenti non ci sia, ma che sia solo una grossa sofferenza a cui l’uomo deve sottostare.

Siamo esseri umani razionali, viviamo in una società occidentale basata sulla razionalità e comunque continuiamo a fare violenza.

Ci siamo scontrati negli anni anche con una natura che è intrinsecamente e inevitabilmente violenta. Questo è dimostrato dagli innumerevoli terremoti, epidemie, surriscaldamento climatico e altro.

Davanti ad una realtà̀ così crudele, l’uomo ha dovuto imparare a sopravvivere.

Dall’altra ci sono le istituzioni e le strutture simboliche, istituite dopo la nascita della civiltà̀, che hanno regolamentato i valori e principi umani in modo violento e questo credo abbia contribuito a fare scivolare l’uomo in una serie di difficoltà, come incontrare dipendenze quali l’alcool e la droga. Questo movimento verso le dipendenze, lo scrittore filosofico Nietzsche lo definisce “Dionisiaco” cioè̀ dell’ebbrezza, in cui gli uomini perdono la loro identità̀. Da parte di una società̀ questo può̀ essere considerato un fallimento, in quanto incapace di mettere l’individuo nelle condizioni di poter crescere ed essere valorizzato.

Severino, filosofo contemporaneo, afferma che la violenza costituisce una malattia estranea al funzionamento normale delle nostre istituzioni, qualcosa cioè̀ di accidentale, che non proviene dalle idee grandi e solenni o lucide e profonde, da cui il vivere civile è guidato, ma dal loro abbandono e dalla loro dimenticanza, dalla loro trasgressione e tradimento.

La violenza quindi, porta l’individuo a non seguire più̀ i suoi valori e principi, tutto di un tratto diventa cieco davanti alla realtà̀.

Cecità
La cecità, incapacità di guardare l’altro

 

Di fronte a situazioni di privazione, come lo può essere uno stato di pandemia, in cui un accesso immediato alla soddisfazione dei nostri bisogni è difficile e i diritti delle persone vengono meno, l’individuo di fronte alla realtà diventa cieco.

La prima cosa che perdiamo è la nostra razionalità.

In un film intitolato “La cura del benessere” una voce narrante fuori campo dice:

“Un uomo non può̀ negare la verità̀, non può̀ tornare volontariamente nelle tenebre, o diventare cieco se ha ricevuto il dono della vista come non può̀ tornare non nato. Siamo l’unica specie capace di introspezione, l’unica specie con la tossina dell’insicurezza iscritta nel codice genetico: a dispetto dei nostri doni noi costruiamo, compriamo, consumiamo, ci culliamo nell’illusione del successo materiale. Imbrogliamo e ci arrampichiamo con le unghie, con i denti alla vetta di quella che definiamo realizzazione, la superiorità su altri uomini”.

In questi mesi ci siamo ritrovati tutti a dover affrontare una situazione simile, il Covid19 è entrato nelle nostre case, nei nostri ospedali e nelle nostre comunità. Non è stato per niente facile affrontare tutto questo. Ogni mese il governo ha rilasciato dei decreti e provvedimenti nuovi a cui noi tutti abbiamo dovuto sottostare. C’è stato un lockdown generale in cui alcuni di noi hanno mantenuto il tragitto casa-lavoro e c’è chi invece è dovuto rimanere solo a casa attivando e promovendo processi lavorativi nuovi come lo Smart working.

Assenza di movimento, libertà di movimento causato dal covid

 

Tutto questo ha portato inevitabilmente a violenti cambiamenti e conseguenze nella gestione nella nostra vita.

Abbiamo dovuto modificare le nostre abitudini, fare dei sacrifici e sentire la nostra libertà individuale limitata, anzi quasi soffocata e messa da parte.

Ci siamo conosciuti un po’ di più riflettendo su come siamo noi stessi, ci siamo confrontati con le nostre paure e i nostri comportamenti in una situazione che possiamo definire terribilmente frustrante, stressante, ma talvolta è stato anche traumatico.

Si sono innescati in noi comportamenti e atteggiamenti di cui non eravamo consapevoli, come conseguenza di situazioni che erano fuori dal nostro controllo. Ci siamo sentiti impotenti, magari nei confronti dei nostri cari ammalati o a carico di strutture riabilitative, e arrabbiati per non aver ricevuto delle risposte da parte dei professionisti e delle linee guida chiare per affrontare questo virus.

Il senso delle cose che ci accadevano attorno, l’orizzonte e la fiducia verso un futuro sono andate perse o almeno abbiamo dovuto deragliare più volte il nostro treno verso binari sconosciuti.

In tutte queste situazioni di grossa difficoltà che negli anni abbiamo dovuto affrontare, la razionalità e la maturità affettiva diventano degli strumenti importanti per una sufficiente competenza deliberativa. Se non ci fossero queste capacità ci sarebbe una degenerazione della democrazia e l’individuo perderebbe il controllo di sé stesso.

Severino, nel mondo della filosofia contemporanea, ha inserito in tutta questa spiegazione sulla violenza il concetto di fiducia. Fiducia in cosa vi chiederete. La fiducia alle cose della realtà non è più stabile come un passato, ma è in continua modificazione, perché le stesse cose della realtà di oggi continuano a mutare e a cambiare. Davanti ad una realtà e natura così potente e imprevedibile ci si chiede cosa possa fare l’uomo. Di cosa o di chi possa fidarsi ancora veramente.

Riconquistare un occhio caldo, solidale, razionale e futurista nel mondo di oggi risulta quindi essenziale da parte di tutti i cittadini.

Dobbiamo recuperare la nostra capacità di desiderare, che vuol dire non solo soddisfare qualche passione innata, ma anche quel qualcosa che scaturisce dall’inquietudine del nostro cuore che ci permette di realizzarci e riconoscerci e di stare semplicemente bene.

Vi chiederete come si possa fare per permettere che ciò avvenga.

Solidarietà e aiuto

C’è bisogno di un’educazione che riconosca la persona in quanto uomo, valorizzandola nelle sue particolarità. Credo, quindi, che l’educazione all’uso della tecnica intesa come sapere della ragione e allo stesso tempo alla violenza, debbano essere presenti nel percorso formativo, così come nella vita in sé. Quindi, accostare concetti come “ragione” e “violenza” appare agli antipodi, sono infatti termini contrari collegati però dal potere dell’educazione.

Il poter diventare uno spazio di accoglienza del desiderio altrui è il presupposto principale di ogni aver cura.

Detto questo, ognuno di noi in questo periodo avrà sofferto o passato periodi difficili, io porto la mia testimonianza perché credo che la cosa più importante in questo periodo è non sentirsi da soli.

Anche in comunità il lavoro con il virus è turbolento, ci ha messo ogni giorno in gioco e portato ad affrontare situazioni di emergenza che hanno colpito sia i pazienti che gli operatori. Come descritto prima tutto questo ha delle conseguenze non solo fisiche, ma soprattutto psicologiche. È importante al di là della profilassi, della gestione burocratica e organizzativa di questa emergenza che si dia spazio all’ascolto della persona e all’accogliere le emozioni che arrivano e prendersene cura.

Solo così ci possiamo chiamare comunità, solo così siamo attivatori di processi di individuazione.

Non dimentichiamoci che la natura dell’uomo è buona e che siamo esseri umani mossi da razionalità. Dipende da noi come vogliamo utilizzarla. Non abbandoniamo e alleniamo continuamente la nostra capacità di argomentare, parlare, comunicare, confrontare e creare.

Solo così risolveremo e ci rialzeremo da ogni situazione, insieme.

BIBLIOGRAFIA:

  • Cusinato (2017), Periagoge. Teoria della singolarità e filosofia come esercizio ditrasformazione, Verona, QuiEdit,
  • Gherardi (2018), La dotazione. L’azione sociale oltre la giustizia, Sesto S. Giovanni (Milano), Mimesis Edizioni,
  • Severino Emanuele, Techne. Le radici della violenza, BUR, Rizzoli,
  • Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, 2017,
  • José Saramago, Cecità, Feltrinelli, 2010.

CINEMATOGRAFIA:

  • Cura del benessere, film del 2016, diretto da Gore Verbinski.

 

Francesca Andreoli

Nata a Trento nel 1994.

Diplomata nel 2013 al Liceo Socio-psico-pedagogico “Rosmini” di Trento. Nel 2016 si è laureata all’Università di Ferrara, con sede a Rovereto, in Educazione professionale. L’anno successivo ha svolto un anno di servizio civile presso Il centro diurno il Muretto della cooperativa Progetto ’92.

Dal marzo 2018 entra nell’organico del Centro Trentino di Solidarietà come Educatore professionale sanitario presso la Comunità Casa di Giano.

Attualmente sta perseguendo la laurea in Scienze Pedagogiche presso l’Università di Verona.

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